LUIS HIDALGO: “IL MESTIERE DI BARTENDER DEVE ESSERE DEMOCRATICO”

LUIS HIDALGO: “IL MESTIERE DI BARTENDER DEVE ESSERE DEMOCRATICO”

Luis Hidalgo: "Il mestiere di bartender deve essere democratico"

Un diploma di ragioneria, corsi di marketing e pubblicità all’università, lavori in discoteca il weekend: “Guadagnavo bene, mi divertivo. Mi sono laureato … e poi ho mollato tutto. Ho preso un aereo e me ne sono andato”.

Così Luis Hidalgo riassume il percorso che l’ha portato dal Venezuela, dove è nato e cresciuto, all’Italia. Prima di approdare da questa parte dell’oceano ha lavorato tra Portorico, Miami, e la Repubblica Dominicana, dove ha incontrato la sua ex compagna italiana che ha seguito nel nostro paese.

Ora è bartender della Terrazza Triennale di Milano. Fra le vetrate che dominano il Parco Sempione e lo skyline cittadino propone cocktail di impeccabile equilibrio e semplicità profumata, come il Nohelya (Rum, Campari, liquore all’arancio e Tamarindo) o l’Alessia (Gin, liquore ai fiori di sambuco, menta, cetriolo, zucchero invertito al cardamomo, limone e pompelmo fresco). Di fianco all’area cocktail quella ristorante, il cui menu è firmato da Stefano Cerveni, stella Michelin franciacortina.

Come si coordina il suo lavoro con quello della cucina?
In questo momento lavoriamo a stretto contatto: sto cercando di trasporre alcuni piatti o ingredenti, come la patata viola, in drink. Ma non è facile! 

In alcuni orari in cui la cucina è chiusa (dalle 15 alle 18 e dalle 23 alle 24.30, NdR), al bancone puoi mangiare piatti con cui consiglio abbinamenti precisi. Ad esempio le Pennette all’Amatriciana d’Oca con il Milano 15: gin, aperol, succo di limone, twist di arancio, top di Franciacorta.

Le piace lavorare con prodotti italiani?
Moltissimo: il mio lavoro deve essere territoriale. Però mi piace soprattutto crearmi gli ingredienti da solo. Perché avere 400 gin e 200 toniche, ora che c’è questo boom del gin tonic, quando puoi aromatizzarle da solo con frutta, fiori, spezie? Penso però che il nuovo trend siano le spezie, soprattutto quelle asiatiche.

Come vede la situazione della mixology nel nostro paese?
A livello di persone manca ancora cultura, ma la cocktaillerie si sta evolvendo. È bello che il nostro ruolo stia ricevendo più attenzioni, ma non sopporto quelli che a 22 anni si definiscono maestri di mixology. Io mi definisco bartender e basta. Non basta stare dietro il bancone: in questo lavoro devi sapere fare tutto, sopportare gli orari difficili – arrivo qui ogni giorno alle 9.30 per cominciare a mezzogiorno – ed essere sempre gentile con tutti. Carismatico ma rispettoso.

Il cliente ha sempre ragione?
No, ma non dobbiamo fare gli snob. Se mi chiedono di fare un Invisibile alla fragola, invece che irritarmi propongo una cosa molto simile per sapori e profumi. Perché rifiutarsi e dire “Non lo faccio”? Non puoi dire che un cocktail non è buono, puoi dire non ti piace: se alcuni come l’Angelo Azzurro sono andati di moda un motivo ci sarà.

Qual è il suo cocktail preferito?
Non ne ho uno. Se conosco il barman chiedo El Presidente, altrimenti ordino una birra.

Lei ha lavorato anche in catene di hotel come il Bvlgari. Com’è stato il cambiamento?
In un hotel impari la professionalità e il rispetto, ma gestendomi da solo ho il tempo di concentrarmi sulla ricerca. Anche se poi mi ritrovo con mail da rispondere anche di notte! Milano è una città ti chiede tanto, devi essere sempre aggiornato e andare a mille. Per questo non voglio trasferirmi da Vigevano: a casa ho bisogno della tranquillità e del silenzio.

Quali sono le differenze tra il lavorare nei Caraibi o in Sud America e arrivare qui?
L’Italia è amara come il Campari. Là invece amiamo la frutta, c’è una cultura inconsapevole del tiki. La cosa più difficile però è stata convertire dai litri alle once, figurarsi per me che non uso mai misurini! Anche lo chef Cerveni spesso mi chiede come faccio. La verità è che non lo so: creare cocktail mi viene naturale.

by: finedininglovers

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